Brotherhood & Unity. La sacca di Sarajevo

Serba: Laura Beltrami
Croato: Marcello Vezzosi
Bosgnacco: Alex Isabelle

Sono i primi anni '90 e la Bosnia-Erzegovina si ritrova a essere il triste teatro di crescenti tensioni etniche. Analogamente a molti territori dell'Europa centro-orientale, infatti, quest'area dei Balcani ospita una moltitudine di nazionalità che vedono sé stesse prima di tutto come serbe, croate e musulmane, e solo in secondo luogo come bosniache. La perfetta ricetta per un disastro, che si va preparando per tutto il Novecento: la regione, inizialmente una periferia dell'Impero Ottomano, viene inglobata dall'Impero Austro-Ungarico in seguito alla Guerra Russo-Turca. Poco tempo dopo è il tempo del Trattato del Trianon, che scorpora l'Impero in svariati staterelli, gettando le basi di un risentimento che accomunerà tutta l'area balcanica e che non si affievolirà con la nascita del Regno di Jugoslavia. Dopo una seconda guerra mondiale fortemente alimentata ANCHE da queste tensioni la dittatura di Tito riuscirà a tenere in piedi la baracca, a vantaggio peraltro proprio della Bosnia-Erzegovina che, per via della sua posizione centrale nel paese, verrà scelta come sede dello sviluppo della difesa militare. Oltre a riempirla di armi questo la porterà a conoscere uno sviluppo piuttosto rapido, che si interromperà di colpo con la morte di Tito. Il passaggio alla democrazia, in questa regione, è caratterizzato dalla dura contrapposizione di tre partiti nazionalistici, rispettivamente rappresentanti di serbi, croati e musulmani, che si dimostrano incapaci di collaborare. Il tentativo di serbi e croati di dividere la Bosnia-Erzegovina in regioni nazionalmente omogenee da aggregare ai rispettivi, neonati, stati si scontra con l'evidenza che di aree nazionalmente omogenee, da queste parti, non ce ne sono. Ne nasce quindi una vera e propria guerra civile, che vede contrapposte le varie nazioni, supportate da forze straniere, nel caso di Serbia e Croazia, e da qualche migliaio di mujāhidīn provenienti dall'intero mondo islamico, nel caso dei bosgnacchi.

Lo scenario si apre nel 1992, con una Sarajevo già chiusa in un assedio ai danni dei bosgnacchi, che comunque riescono a mantenere il controllo di molti quartieri chiave all'interno della città. Le forze serbe, che hanno circondato la città, vengono tenute in forze da una fragile catena di rifornimenti che parte dalla Yugoslavia (l'odierna Serbia doveva ancora cambiare nome) e che si sviluppa attraverso le cittadine di Sokolac, Vlasenica e Zvornik.

La guerra è appena cominciata
e già le Nazioni Unite minacciano sanzioni.

I serbi fanno i furbi, cercando di considerare già chiusa la questione: vengono presi contatti con i diplomatici stanieri, così da tranquillizzarli circa l'imponente entrata nel conflitto di forze militari provenienti da oltre confine. È evidente che questi soldati non siano lì per darsi al giardinaggio, ma in qualche maniera i diplomatici occidentali si lasciano intortare, e la minaccia di sanzioni alla Serbia viene subito sollevata. Mentre ciò avviene i Croati sferrano un colpo di mano ai danni delle popolazioni musulmane, occupando senza trovare resistenza due importanti centri abitati della Sredna Bosna, regione di grande interesse per loro. Le poche truppe bosgnacche lì presenti scappano e si riorganizzano più a est. Le potenze internazionali nasano che si sta per verificare una catastrofe e quindi vengono immediatamente aperti da parte dell'ONU due corridoi umanitari: uno a Srebrenica e l'altro a Bihać. Ciò mette immediatamente un freno ai propositi serbi di attaccare questi importanti centri abitati, peraltro ben difesi da truppe musulmane, perchè attaccare uno di questi corridoi umanitari significherebbe far crollare la propria credibilità internazionale, causando l'intervento dei bombardieri tattici americani.

I serbi quindi si concentrano sui (tanti) altri territori dei quali hanno comunque bisogno per chiudere la partita. Giocano la prima di diverse "major offensive" sferrando quattro attacchi a piena potenza in varie regioni della mappa. Alcuni di questi attacchi vengono sferrati ai danni del bosgnacco, e sfiga vuole che diverse importanti reti giornalistiche abbiano dei propri inviati proprio in quelle città. La "polveriera balcanica" finisce quindi nelle prime pagine di mezzo pianeta e la Serbia vede precipitare la propria immagine internazionale. Immediatamente fioccano le sanzioni, seguite subito dall'ordine di andarci piano coi consumi di carburante. Per quanto i centri attaccati da questa grande offensiva vengano liberati, dunque, le truppe faticano a prenderne immediatamente il controllo.

I bosgnacchi si barricano a Novi Grad
e a Novo Sarajevo.

La Repubblica Croata di Bosnia ed Erzegovina e i bosgnacchi concordano che i serbi abbiano già rotto i coglioni e che dunque vadano prese delle precauzioni. Si opta per una fragile alleanza che viene comunque sottolineata da importanti preparazioni militari da parte croata: il ministero della difesa della Croazia, Gojko Šušak, investe denaro straniero in un progetto di rafforzamento dell'HVO, il "Consiglio di difesa croato", vale a dire l'esercito dei croati bosniaci, che riceve munizioni, armi e supporti logistici. Per i successivi due anni questo darà all'HVO un netto vantaggio contro i bosgnacchi, che a maggior ragione metteranno da parte qualsiasi proposito di affrontare i croati in campo aperto. I musulmani accettano di lasciare ai croati il controllo dell'importante regione della Sredna Bosna, e si ritirano ordinatamente da Zenica, distribuendo le proprie truppe in aree minacciate dai serbi. Al contempo vengono approntate delle difese a Novi Grad e a Novo Sarajevo, due dei punti chiave per il controllo della città.

I serbi dapprima interrompono gli attacchi, prendendo contatti coi diplomatici americani così da interrompere il flusso di sanzioni internazionali alla Serbia. Poi appena le cose vanno per il verso giusto bombardano Sarajevo con l'artiglieria, uccidendo molti degli impreparati bosgnacchi. Questo dà finalmente il via alla battaglia per il controllo della capitale: i bosgnacchi, forti della presenza di foreign fighters arabi nella regione di Podrinje, attaccano il villaggio di Sokolac, uno dei nodi che tiene in piedi la catena di rifornimenti serba a Sarajevo. L'attacco sulla carta è tutto a vantaggio dei musulmani, ma la loro scarsissima preparazione bellica, unita al fatto che dall'altra parte a comandare le truppe ci sia l'eroe di guerra Slavko Lisica, fa sì che, per quanto indebolite, le truppe serbe riescano a tenere il controllo della cittadina. Subito dopo i serbi attaccano da nord la bombardata Novo Sarajevo, compiendo una strage e prendendone il controllo.

Truppe bosgnacche, guidate dai mujāhidīn,
attaccano le sparute difese di Sokolac.

Il 1992 si chiude quindi male per le forze bosgnacche, le quali tuttavia non demordono. All'alba del 1993 esse subito riattaccano Sokolac, e stavolta riescono ad avere la meglio sui serbi. Di colpo crolla la catena di rifornimento per le truppe serbe a Sarajevo, metà delle quali inizia ad avere dubbi sul successo della missione. Forti del fatto che nessuno li abbia in nota i Croati fanno intanto arrivare da oltre confine dei mezzi pesanti, rinforzando alcune unità, per poi attaccare Istočni Mostar, controllata dai serbi. Se il conflitto, finora, ha primariamente viste impegnate truppe regolari contro bande paramilitari bosgnacche, ora si ha a tutti gli effetti un confronto aperto fra due eserciti regolari sovvenzionati da potenze straniere. Al termine di questa prima battaglia sia serbi che croati ricevono lo stesso numero di perdite, e il lato est della città di Mostar non varia il suo controllo.

La Croazia osserva con criticità
le manovre serbe in Posavina.

I serbi vorrebbero contrattaccare ma devono risolvere la questione della sacca di Sarajevo: con un discreto gruppo di forze attaccano la cittadina montana di Vareš, che se conquistata permetterebbe loro di riaprire le linee di comunicazione con Sarajevo, ma i bosgnacchi offrono una resistenza tenace e non cedono. Metà delle truppe serbe a Sarajevo sono, a questo punto, del tutto fuori rifornimento. Per tutto il resto dell'anno proseguiranno gli scontri a Mostar, senza che nè i croati nè i serbi riescano ad avere la meglio. Similmente, nonostante rinforzi provenienti da Tuzla, i serbi insistono e comunque non riescono a rompere la sacca di Sarajevo. Alla fine del 1993, infine, le migliaia di soldati il cui sforzo bellico non può essere sostenuto dai soli quartieri occupati di Sarajevo diserta, lasciando di fatto la capitale senza metà dei soldati inizialmente impegnati ad assediarla.

Nonostante ciò l'anno si chiude con un'offensiva serba nel Nord della Bosnia, mirata ad aprire il "corridoio della Posavina": la totalità delle regioni a nord-ovest, in larga parte occupate dalla Serbia, fin dall'inizio della guerra sono infatti a loro volta sottoposte a un regime di rifornimenti limitati, perchè manca una linea di collegamento diretto tra esse e la Yugoslavia. La regione della Posavina, se conquistata, permetterebbe di creare quel ponte logistico, permettendo di alimentare appieno quelle regioni e di organizzare una nuova avanzata da nord. L'offensiva verso la Posavina non riesce a stabilire un pieno controllo sull'intera regione, che rimane contesa tra tutte e tre le forze in gioco, ma riesce a strappare dal controllo musulmano la città di Gradačac. Grazie a questa veloce avanzata il ponte tra i territori a ovest e la Yugoslavia è, quantomeno, aperto, il che mitiga la gravità dello scenario nella capitale.

Le truppe ritirate da Zenica discendono da Nord,
mentre i serbi si asserragliano
attorno a Novi Sarajevo.

Quando arriva il 1994 sono ormai passati due anni dall'inizio della guerra, e i bosgnacchi si sono finalmente riusciti a organizzare. Decadono i benefici strategici dei croati, e i musulmani ora hanno l'iniziativa (e carte più potenti), mentre la forza d'impatto dei serbi viene fortemente ridimensionata da carte meno apocalittiche e da una turnazione infelice, oltre che da rinforzi risicatissimi. La leadership serba decide di mitigare il problema facendo entrare in gioco gruppi paramilitari da oltre confine, a costo di peggiorare un po' le proprie relazioni diplomatiche: compare dunque la SDK, la Guardia Volontaria Serba, gruppo paramilitare meglio noto come "Tigri di Arkan" che nella storia reale si è contraddistinto per numerosi crimini di guerra. Ciò avviene proprio pochi giorni prima che venga proposto il piano Vance-Owen per una fine delle ostilità, piano che, sotto minaccia di ulteriori sanzioni, viene accettato dalla Serbia, ma non dai serbi della Bosnia-Erzegovina, che se ne fottono del cessate il fuoco e continuano a combattere. Di conseguenza la presidenza serba va giù di testa e impone un embargo a questi ultimi, ritirando dal campo le Tigri di Arkan, che non si faranno più vedere. Furenti, i serbi prendono a colpi d'artiglieria diverse basi bosgnacche e croate, ma ciò non riesce a rallentare il crollo del loro fronte: il croato attacca Brčko, città al confine con la Yugoslavia che, se presa, tornerebbe a chiudere il corridoio della Posavina. Dopo giorni di intensissimi combattimenti la serba riesce a tenere il controllo della città, anche per merito di un rimasuglio di superiorità aerea. Subito dopo tuttavia il croato attacca nuovamente Istočni Mostar, e stavolta non c'è niente che tenga: il croato passa il noto ponte patrimonio dell' Umanità (che NON crolla!) e mette la sua bandierina sull'Erzegovina Occidentale, cosa che lo avvicina fortemente ai suoi obiettivi territoriali. Subito dopo è il momento dell'avanzata bosgnacca a Sarajevo: le truppe che l'anno prima si erano ritirate da Zenica procedono verso sud occupando il distretto periferico di Semizovac e poi l'importante sobborgo di Vogošća, uno dei punti chiave che ancora teneva in piedi le forze serbe in città. Subito dopo le forze stazionate nei quartieri di Novi Grad e nel centro città di Sarajevo attaccano le truppe stazionate a Novo Sarajevo, compiendovi e un massacro ma non riuscendo a ottenerne il controllo per via delle sanzioni internazionali che, a questo punto, colpiscono anche i bosgnacchi, obbligandoli a rallentare l'avanzata proprio nel suo momento chiave. I pochi irriducibili serbi rimasti in città si radunano in una Novo Sarajevo ormai del tutto demolita, attrezzandosi per difendersi dalle avanzate successive.

La Sredna Bosna è pienamente in mano croata.

Nei mesi successivi la guerra giunge a uno stallo: mentre la serba riorganizza Novo Sarajevo il croato mobilita le sue truppe in giro per la Sredna Bosna, preparando le future offensive, e il bosgnacco prende contatti con le Nazioni Unite per ridurre le sanzioni. In qualche maniera ci riescono. Un'unità di bosgnacchi vede però in questa quiete una forma di sottomissione a quelle forze internazionali che con le loro interferenze hanno devastato il paese; di conseguenza tradisce la propria fazione passando dalla parte dei croati bosniaci e guidando un attacco a sorpresa a Visoko, che passa in mano croata. Le basite truppe bosgnacche ivi stazionate si ritirano verso Sarajevo, che deve essere conquistata a tutti i costi e senza interferenze.

I traditori bosgnacchi, ora una forza regolare croata,
occupano Visoko.

Si giunge infine al 1995, l'ultimo anno di conflitto. Questo si apre con l'avanzata finale dei bosgnacchi su Novo Sarajevo, guidata dal criminale di guerra Atif Dudaković, il quale si presenta in città alla guida di fanteria meccanizzata. Le difese serbe crollano male, e subito dopo i mezzi motorizzati dell'esercito bosgnacco prendono il controllo di gran parte dei quartieri periferici della città, ormai abbandonati dai serbi. Con la presa di questi ultimi distretti i bosgnacchi ottengono pienamente il controllo sulla capitale Sarajevo.

La guerra nell'area centro-meridionale della mappa è ormai terminata. Il conflitto torna nell'area della Posavina, dove il serbo incrementa la sua attività per tentare di ottenere il pieno controllo della regione, scontrandosi tuttavia con un croato che non intende cedere le sue posizioni. Anzi: questi bombarda la città di Jajce, capitale della Južná Krajina, per poi tentare un attacco alla città, che però rimane sotto il controllo dell'SVK, l'Esercito della Repubblica Serba di Krajina, corpo militare di dubbia legittimità che storicamente venne spazzato via proprio dall'avanzata croata in Krajna, e che qui invece resiste, mantenendo al contempo il controllo del resto della regione. Il bosgnacco propone alla Serbia di spostare le truppe da Vlasenica verso nord, millantando di voler coordinare un attacco combinato in Sredna Bosna così da fermare un'avanzata croata che comincia a farsi problematica: la serba intuisce che ci sia un'inculata dietro l'angolo e giustamente non sposta le sue truppe. I musulmani, confermando i dubbi serbi, attaccano allora con tutte le proprie forze svariati centri abitati nel nord-est, a partire proprio da Vlasenica, tentando una conquista-lampo della Semberija, una regione sostanzialmente di nessun interesse per i musulmani bosniaci, ma che se conquistata darebbe comunque loro maggiore credibilità nelle trattative di pace oramai imminenti. Nonostante la sorpresa e gli imponenti mezzi a disposizione dei musulmani, vale a dire migliaia di mujāhidīn, fortunatamente i serbi riescono a mantenerne il controllo, perdendo unicamente la città di Vlasenica, che al di là della sua rilevanza strategica non è un centro di potere importante. Viene così scampata un'escalation nel conflitto etnico della Bosnia-Erzegovina, che si sarebbe probabilmente tradotta in pulizie etniche e altri crimini contro l'umanità.

Fallisce l'avanzata finale
dei bosgnacchi in Semberija.

La partita si chiude quindi con uno stallo generale e una corsa alla diplomazia. Le Nazioni Unite ottengono finalmente il cessate il fuoco da parte di tutte le parti in guerra. Il controllo bosgnacco della città di Sarajevo si dimostra un'importante dato al momento delle trattative, così come l'omogeneo controllo delle regioni primariamente abitate da musulmani, inclusa la Cazinska Krajina, uscita intoccata dal conflitto anche per merito del corridoio umanitario istituito a Bihać dall'ONU, e con la sola eccezione della Sredna Bosna, completamente controllata dal croato, sul quale però pesa la mancata conquista della Južná Krajina e della Posavina. Il serbo, invece, ha lasciato troppi territori chiave in mano ai suoi avversari. Al termine degli accordi di pace, quindi, prevale la linea bosgnacca, vale a dire che la Bosnia-Erzegovina continua a esistere con i confini iniziali, e si ritorna ad uno status-quo che tenta di far coesistere, per quanto con dolorose difficoltà, le varie nazionalità che la popolano.

Il futuro della Bosnia-Erzegovina si preannuncia complicato. Popoli che per quattro anni si sono sparati addosso dovranno imparare a coesistere. Riuscirà mai il paese a raggiungere i fasti che conobbe ai tempi della dittatura di Tito? Chissà. Quella è un'altra storia.

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La Serbia non è contenta di come sono andate le cose.

L'Esercito della Repubblica Serba di Krajna regge l'impatto con i croati
e non cede Jajce, mantenendo un labile controllo sulla regione.
La Semberija alla fine della guerra.
   

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